Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 25 Luglio 2017
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=45227
C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui i giornali erano diversi tra loro. Al lettore era data la possibilità di scegliere tra una varietà di quotidiani o settimanali più o meno in linea con le sue idee politiche, la sua concezione della società, la sua fede religiosa o, semplicemente, le sue abitudini. Ché difficilmente chi aveva letto un quotidiano per vent’anni lo abbandonava per la concorrenza, analogamente a quanto avveniva con i partiti politici, del resto. Andare in giro con un certo quotidiano sotto il braccio, a quel tempo, diventava un tratto distintivo inequivocabile, un vero e proprio biglietto da visita.
Sembrano passati secoli, invece si tratta appena due o tre lustri. Una quindicina d’anni in cui è cambiato tutto. I giornali che erano “di sinistra” oggi sono globalisti, interventisti, filo-americani (quando governano i democratici), cristianofobici, fondamentalisti verdi, anti-russi e vicini alle posizioni dei grandi gruppi bancari. E quelli “della borghesia”? Praticamente identici a quelli un tempo “di sinistra”. Con la differenza che la borghesia non si sa neppure cosa sia, e ammesso che esista ancora, è una specie in via di rapida estinzione. Proprio come la classe operaia, del resto.
E quindi? Cosa sono diventati i giornali di oggi? E chi rappresentano veramente? Sono domande difficili ma ineludibili, alle quali si proverà a rispondere in questo e in altri articoli sull’argomento. Argomento che è comunque interessante per chi si occupa di clima, perché anche il climatismo, il catastrofismo e il salvamondismo, dall’essere tratti distintivi ed esclusivi della stampa “di sinistra”, hanno finito per diventare parte integrante dell’armamentario globalista di tutta la stampa mainstream.
La rana nella pentola
Ci si chiede come sia stato possibile che il lettore di un giornale 15 anni fa in prima linea nella lotta contro la globalizzazione, si sia ritrovato a leggere oggi un quotidiano con lo stesso nome che considera il globalismo la soluzione a tutti i mali del mondo. O che il lettore di un giornale un tempo filo-americano senza se e senza ma, oggi si ritrovi a leggere editoriali pieni di insulti indirizzati al Presidente degli Stati Uniti o di pippettoni verdi salvamondisti che erano un tempo esclusivo appannaggio della “concorrenza”.
Il punto è che tanta gente non se n’è nemmeno accorta. Proprio come la rana nella pentola: se la butti nell’acqua bollente lei salterà fuori istantaneamente. Se la metti nell’acqua fredda, lei se ne starà buona, si godrà il calduccio, e quando si accorgerà che l’acqua è troppo calda, sarà troppo tardi per scappare. Così è stato per i lettori di certi giornali: molti di loro non se ne sono nemmeno accorti, di leggere qualcosa che dieci anni prima gli avrebbe provocato conati di vomito. E continuano leggerli quei giornali, e si ritrovano cucinati a puntino, come la rana, ma in salsa globalista. Tanti altri lettori, invece, si sono accorti in tempo del cambiamento e sono saltati fuori dal pentolone di fronte alle prime avvisaglie del “nuovo corso”, come raccontano, spietati, i dati sulle vendite dei quotidiani.
Un monocolore mediatico
Resta il fatto che il mondo dell’informazione è cambiato, completamente. E che la stampa mainstream è oggi sostanzialmente monocolore, e monocorde. Porta i colori smorti e confusi di un ambizioso super-governo mondiale, fatto di temi adattabili a qualsiasi paese e in massima parte collocabili nel filone della politica liberal americana: globalismo, ambientalismo, salvamondismo, climatismo, politically-correct, gender, sincretismo, cristianofobia, russofobia, melting-pot, rivoluzioni colorate, guerre democratiche. Armamentario che nel vecchio continente si arricchisce di un ingrediente autoctono: la germanofilia.
Nonostante le tesi complottiste abbondino in materia, l’omogeneizzazione della stampa mainstream non appare come un fenomeno teleguidato, ordito da una spectre internazionale con ambizioni di dominio globale. Piuttosto, si configura come un naturale e spontaneo allineamento di interessi tra gruppi editoriali omogenei dal punto di vista delle strategie delle rispettive proprietà. Del resto il fenomeno dell’accorpamento dei media in grandi gruppi editoriali controllati da poche mani, e molto forti, non nasce certo oggi visto che è osservato e studiato da almeno una ventina d’anni a questa parte.
Quel che è certo, è che il processo di accorpamento e concentrazione dei gruppi editoriali, nato a seguito di una naturale esigenza di business, ovvero di razionalizzazione dei processi e ottimizzazione delle risorse, ha portato ad un inevitabile cambiamento nella funzione del giornale stesso.
Domanda o Propaganda?
Un tempo i giornali erano dei semplici strumenti per fare profitto. In linea con il principio della domanda e dell’offerta, gli editori andavano a occupare nicchie (o praterie) per poter piazzare il loro prodotto, in base ai gusti dei potenziali acquirenti. Oggi non è più così. In molti casi le proprietà dei giornali sono riconducibili a entità estremamente ricche e altrettanto influenti. Talmente ricche e influenti che fa sorridere l’idea che le stesse proprietà si accontentino di usarli per realizzare profitti (quando va bene) dell’ordine di qualche milione di dollari.
Un caso emblematico è offerto dal Washington Post, comprato nel 2013 per 250 milioni di dollari dal secondo uomo più ricco del mondo. Il giornale in questione vale all’incirca lo 0.3% del patrimonio del proprietario. Se questa ricchezza non è frutto del caso, bensì delle indubbie e straordinarie capacità imprenditoriali del signor Bezos, è lecito ritenere che l’acquisto del giornale abbia un significato strategico per la sua azienda e per i suoi interessi. E che quindi il giornale sia uno strumento utile a formare l’opinione pubblica e a difendere gli interessi della proprietà, piuttosto che un prodotto da vendere per realizzarne direttamente un profitto.
Ben inteso, la cosa è assolutamente legale, legittima e funzionale in un’ottica imprenditoriale. La disfunzionalità, semmai, sta nel fatto che i quotidiani mainstream di tutto il mondo scopiazzino gli articoli del Washington Post presentandoli come espressione di un giornalismo “imparziale”. La spiegazione è semplice e naturale da un punto di vista imprenditoriale: lo fanno perchè le loro proprietà condividono gli stessi interessi, molto semplicemente. A prescindere dai confini geografici, dalla storia o dal retroterra culturale e sociale dei loro lettori in tutto il mondo. In fondo, se si chiama globalizzazione una ragione dovrà pure esserci: parliamo della globalizzazione degli interessi di una élite, prima di ogni altra cosa.
Informazione vs. Formazione
Ad ogni modo, una cosa è chiara: da mezzi di informazione a disposizione dei lettori, i grandi media del mainstream sembrano diventati strumenti di formazione del lettore stesso: trattano sostanzialmente gli stessi temi in modo ossessivo con il fine, nemmeno troppo celato, di educare il lettore piuttosto che informarlo. E sembrano in apparenza disinteressati alla necessità di realizzare un profitto. Solo in apparenza, però, perché l’uso propagandistico e pubblicitario di un mezzo di (in)formazione può fruttare guadagni molto maggiori per la proprietà di quanti se ne possano ottenere dalla vendita del prodotto stesso. È proprio questa la chiave di lettura della metamorfosi in atto nel mondo dell’informazione planetaria.
I meccanismi che sottendono all’evoluzione dei grandi gruppi editoriali sono gli stessi, sia per i media mainstream che per le mosche bianche della grande informazione non-mainstream. Persino Breitbart, unico caso di grande news-network libertario e criptonite del mainstream di mezzo mondo, si giova di importanti contributi economici da parte del magnate americano Robert Mercer. Il punto è che la quasi totalità dei media di largo consumo sono sulla sponda opposta, quella del mainstream, profondamente liberal e sostanzialmente ispirata (quando non direttamente legata) agli interessi imprenditoriali dei veri dominatori della finanza mondiale: i colossi dell’high-tech, a loro volta inevitabilmente connessi con il mondo delle grandi banche di investimento.
E siccome il brand dell’high-tech si pasce di fondamentalismo ambientalista, salvamondismo e climatismo, questo spiega come mai questi temi siano dominanti su tutti i media del mainstream. Alla fine della fiera, climatismo, catastrofismo e salvamondismo sono una pura e semplice forma di marketing, mediata proprio attraverso i mezzi di informazione proprietari: “Come puoi leggere sui media autorevoli, il mondo va a scatafascio e moriremo tutti di caldo per colpa della CO2 o annegati per l’innalzamento dei mari. Se vuoi salvarti dall’annegamento e dall’arrostimento e giocare a nascondino con l’orso bianco tra cumuli di neve candida, compra i miei prodotti verdi ed eco-compatibili. E compra le mie azioni, piuttosto che quelle dei rovinamondo. E soprattutto, vota per i politici che difendono i miei interessi”.
Pentole e coperchi
Il rovescio della medaglia di una strategia apparentemente perfetta, è che buona parte dell’editoria è in crisi proprio in virtù della strategia stessa, ovvero per la mancanza di prodotti che soddisfino una domanda di informazione alternativa lasciata deliberatamente insoddisfatta dai grandi gruppi editoriali semplicemente perché non funzionale ai loro interessi primari, ovvero proprio quelli non-editoriali. Col risultato che il fondamento stesso dell’economia di mercato, ovvero il rapporto tra Domanda e Offerta, viene del tutto ignorato nel nome di un’illusoria sicurezza nei propri mezzi e di una fiducia illimitata nelle proprie strategie. È un fenomeno che gli americani chiamano “groupthink“: “pensiero di gruppo“. Mentre i nostri nonni direbbero, più prosaicamente, che i grandi strateghi in questione hanno fatto le pentole, ma non i coperchi.
Il conto, salatissimo, non ha tardato a presentarsi.
Suicidio di Mass(medi)a
La stampa mainstream, qualche anno fa, compatta come una testuggine romana, inneggiava trionfante al “ruolo di internet” nelle rivoluzioni colorate che essa stessa sosteneva con enfasi militaresca ed entusiasmo adolescenziale. La solfa era che “i popoli” si rivoltavano perché “grazie a internet” potevano informarsi e liberarsi dal giogo della propaganda dei regimi. Sorvolando sull’esito in gran parte assai poco democratico di quelle rivoluzioni, il ragionamento della grancassa dell’informazione mainstream in apparenza filava: la gente oggi si informa attraverso altri canali, e i regimi fanno fatica a gestire il dissenso.
In un beffardo gioco di specchi, però, i media del mainstream non si rendevano conto che la fine dei vituperati regimi stavano per farla proprio loro. Proprio la disponibilità di informazione alternativa su internet, infatti, ha trasformato il presunto uovo di Colombo in una frittata: messo di fronte all’evidenza di una stampa tanto uniformata quanto inutile, il lettore le informazioni se l’è andate a cercare altrove: nella galassia di fonti alternative disponibili online. Galassia che include certamente tante patacche ma almeno altrettante gemme preziose, di cui il lettore si innamora e che non abbandona più.
Comprensibilmente in preda al panico per la tardiva realizzazione di essere diventata essa stessa vittima dello strombazzato progresso tecnologico, alla stampa mainstream non è restato altro da fare che accusare l’informazione non-manistream di essere falsa, di produrre fake news. È da questa esigenza che è partita la campagna sulle fake news. Campagna divenuta martellante e disperata, dopo la drammatica constatazione che, nonostante un dispiegamento formidabile di media del mainstream, gli elettori hanno disobbedito clamorosamente al volere degli editori, in occasione della Brexit e soprattutto delle elezioni americane.
Il goffo tentativo del mainstream di imputare il fallimento “formativo” dei loro media al proliferare incontrollato delle fake news è tuttavia naufragato rovinosamente in un diluvio di bufale prodotte dal mainstream stesso, e risolto in alcuni casi in un ripiegamento doloroso e umiliante, in smentite pubbliche quando non in vere e proprie confessioni di tarocco e di malafede da parte di direttori di networks di fama mondiale. Cose di cui nessun media del mainstream, ovviamente, si è curato di informarvi.
Lo faremo noi, nelle prossime puntate di un viaggio sul viale del tramonto dell’informazione mainstream. Viaggio, o meglio, via crucis che si articolerà in diverse tappe, la prossima delle quali sara dedicata proprio al tema delle “fake news”.