Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 12 Ottobre 2020
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=53692

Le recenti elezioni americane e l’accelerazione generale impressa dal Covid al corso degli eventi hanno fornito degli elementi di riflessione che forse vale la pena condividere, nonostante l’argomento sia piuttosto… border line.

Un linciaggio senza precedenti

Chi ha seguito la campagna elettorale su media indipendenti stranieri avrà trovato interessanti spunti di riflessione sulla militanza compatta dei media tradizionali e dei social media a favore del candidato risultato vittorioso. Orgogliosamente l’americana CNBC ha rivendicato i nuovi record di copertura mediatica negativa stabiliti dal presidente americano: tanto per dare qualche numero, in campagna elettorale CNN ed NBC ne hanno parlato male per il 93% del tempo. L’Europa, se possibile, ha fatto ancora peggio (o meglio, secondo i punti di vista) con l’informazione pubblica tedesca che ha denigrato il presidente americano per il 98% del tempo.

Questa copertura mediatica che con ogni probabilità è stata più negativa di quella tutt’ora riservata ai più sanguinari dittatori nella storia dell’ultimo secolo, si è completata con una censura pressoché totale sui social media che, nella foga di cancellare dalla rete ogni traccia di uno scandalo che avrebbe distrutto la reputazione di qualsiasi sfidante, non hanno esitato a bannare per quasi due settimane il sito del New York Post (primo giornale conservatore americano per diffusione) e persino quello del Partito Repubblicano al Congresso USA.

Ben lungi dal voler fare un qualsiasi endorsement del presidente uscente, che rimane evidentemente figura controversa, resta il fatto che l’impegno censorio dei media ha suscitato anche l’indignazione di voci libere (incluso un premio Pulitzer) che si sono chieste se abbia ancora senso parlare dell’esistenza di una deontologia professionale, se non addirittura dell’esistenza di una professione giornalistica in quanto tale. E se la “grande stampa” occidentale non abbia piuttosto assunto caratteri tipici di un sistema totalitario che niente ha a che vedere con la tradizione e la storia della cultura occidentale, ma che al contrario pare ispirarsi al nuovo golden standard proposto dalla Repubblica Popolare Cinese.

Una chiave di lettura molto interessante di questo fenomeno viene offerta da alcune importanti personalità del mondo accademico, italiano e straniero.

Uno scontro feroce

Carlo Pelanda, in un brillante editoriale pubblicato sulla Verità, sottolinea come sia in atto uno scontro feroce a livello mondiale tra due modi di accesso alla ricchezza. Con il primo dei due, quello rappresentato dal ceto medio produttivo, letteralmente assediato dalla strana alleanza tra le élites finanziarie e high-tech e una sorta di internazionale dell’assistenzialismo, ovvero quella corrente di pensiero che predica l’accesso alla ricchezza “per diritto”.

Uno scontro che vede coalizzati miliardari speculatori e giganti del web al fianco di quella che Luca Ricolfi ha definito la “società parassita di massa”: quella cioè costituita da persone che riescono a sbarcare il lunario solo grazie ad un sistema di sussidi statali. Parassiti per necessità e paperoni per diritto acquisito, uniti contro la classe media: spina dorsale dello sviluppo economico e sociale nelle economie occidentali dal dopoguerra.

La strana alleanza, è ovviamente una alleanza di interessi. I miliardari che governano la finanza, possiedono la totalità dei media e dominano l’high-tech, non amano la concorrenza. Anzi, la detestano, e non si fanno scrupolo di dirlo ad alta voce, come Warren Buffet che è arrivato a sostenere candidamente che “la competizione è un pericolo per la (grande) ricchezza”: potendo scegliere, molto meglio il monopolio. I miliardari del resto possono scegliere, e infatti hanno scelto di mettere una piattaforma politica a disposizione dei volontari di tutto il mondo. Per puro tornaconto personale.

Un partito in franchising

Una piattaforma globale, un partito-franchising che sia spendibile praticamente ovunque, e che per questo motivo deve essere totalmente ideologico: non deve risolvere i problemi di nessun cittadino in nessuna parte del mondo, perché una piattaforma globale non può essere adattata alle specificità di ogni Stato, di ogni provincia, di ogni comune.

Ma farà fare bella figura ai suoi finanziatori più o meno palesi,  perché quella piattaforma sarà bellissima, fighissima: innanzitutto sarà “green”, poi sarà “inclusiva”, predicherà la “resilienza” e discetterà di “diritti” con fine eloquenza politically correct. Sarà “gggiovane”, combatterà i “crimini d’odio” e salverà il mondo dal Global Warming. E sarà osannata, lisciata e proposta come l’unica socialmente accettabile proprio dai media di proprietà della stessa élite che quella piattaforma l’ha pensata, creata, e messa a disposizione.

…E uno scambio di favori

I monopolisti, come spiega bene Pelanda, offriranno sostegno incondizionato ai volenterosi che adotteranno quella piattaforma cool e salvamondista: sostegno economico innanzitutto (la campagna presidenziale americana ha mostrato una sproporzione evidente tra i mezzi finanziari messi a disposizione dei due contendenti). E offriranno soprattutto il sostegno di una propaganda politica esclusiva, tambureggiata H24 su tutti i media di proprietà del monopolio.

In cambio, il partito salvamondista regalerà ai giganti della finanza e soprattutto dell’high-tech, la protezione del loro monopolio. Per legge. E racimolerà da quello stesso monopolio spiccioli di elemosina fiscale utili a sostenere la società parassita di massa che di quel partito costituirà la base elettorale principale. Parassita per necessità, più che per scelta: perché di lavoro “vero” i monopolisti non intendono crearne affatto, nei paesi occidentali. Anzi, si propongono solo di distruggerne altro, grazie a provvedimenti economicamente suicidi come il tanto decantato “Green New Deal”: perno imprescindibile della politica economica della piattaforma in questione. Oppure servendosi di eufemismi come la tanto decantata “digitalizzazione” che mascherano solo l’intento di incrementare ulteriormente i profitti azzerando i posti di lavoro ancora occupati dagli esseri umani.

Il ceto medio va all’inferno

La classe produttiva occidentale in questo contesto finisce direttamente all’inferno, privata di lavori nel settore manifatturiero (delocalizzati in Asia), piegata da un diluvio di tasse e regolamentazioni “green” e dai costi insostenibili di fonti energetiche vendute come innovative e rinnovabili ma che in realtà condividono la tecnologia con i mulini a vento. Messa fuori gioco dalla concorrenza sleale di mega-corporations che operano in sostanziale regime di elusione fiscale. Immagine resa plasticamente dal negoziante oppresso da un carico fiscale del 65% che abbassa la serranda durante il lockdown per non rialzarla mai più, proprio nello stesso momento in cui Amazon raddoppia il suo valore in borsa (versando all’Erario l’equivalente di una elemosina).

A chi orgogliosamente rivendica nella piattaforma-franchising una versione 2.0 dell’ideale socialista, risponde l’accademico e scrittore americano Rectenwald che vede piuttosto in questo sistema una versione aggiornata di quel socialismo corporativo nato nell’800 in cui il monopolio non è detenuto dallo Stato (come invece prevede il socialismo “classico”), quanto piuttosto dalle grandi compagnie: le mega-corporations di oggi. Una forma di socialismo imposta dall’alto ad una massa di impoveriti e di nuovi schiavi che ha come obbiettivo primario la difesa degli interessi del monopolio stesso. Un ritorno in grande stile dei maiali di Orwell, forse mai veramente scomparsi dalla scena.

Magra consolazione

Non sono concetti sorprendenti per chi frequenta questo Blog, che già più di tre anni fa, seppure in modo più embrionale e decisamente meno accademico, di queste cose predicava nel deserto più desolato. Ed è anzi motivo di orgoglio che certe intuizioni si siano rivelate fondate, abbiano fatto breccia e siano state sviluppate, circostanziate e inquadrate storicamente, politicamente e socialmente anche da studiosi e pensatori di area progressista e liberale come alcuni di quelli citati in questo pezzo. Lontani anni luce da quelle istanze politiche tanto avversate dai giornaloni di oggi.

Ma “averci visto giusto” è ben magra consolazione al cospetto della sensazione che il Global Warming – tema scientificamente serio in quanto riferito alle dinamiche planetarie – sia diventato solo uno mero strumento di propaganda tra i tanti a disposizione dei nuovi maiali di Orwell. Uno strumento tra i tanti da usare per l’arricchimento di pochissimi a danno di tutti gli altri. In una lotta di potere brutale, in cui non si faranno prigionieri. E in cui ad uscirne sconfitto sarà con ogni probabilità quel modello economico e sociale che ci ha regalato 60 anni di prosperità, di benessere, e di libertà.

Altro che “salvare il Mondo”.