Autore: Donato Barone
Data di pubblicazione: 12 Dicembre 2019
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=52037

I primi giorni della seconda settimana della COP 25 hanno fatto registrare un evento molto interessante. Come ricorderanno coloro che hanno avuto la pazienza di leggere il mio ultimo articolo sulla Conferenza, sembrava che la strada verso il consenso circa l’attuazione dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi fosse spianata. E’ stata l’illusione di un fine settimana. Già lunedì sera le cose sono cambiate: nella versione n° 3 delle bozze di accordo sui paragrafi 2, 6 ed 8 dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi, il numero delle parentesi quadre e delle opzioni è passato da meno di 250 a quasi 500. I negoziatori hanno annullato in quarantotto ore i progressi di un’intera settimana di trattative.

Detto in altri termini la Conferenza di Madrid, allo stato dell’arte, sembra aver fallito i suoi obbiettivi iniziali che ebbi modo di delineare nel primo articolo che dedicai alla manifestazione lo scorso tre dicembre. Salvo improvvisi ed imprevisti capovolgimenti di fronte, tutto è rinviato, infatti, al prossimo anno, alla COP 26 di Glasgow. Come prevedibile e previsto da molti osservatori.

Oggi è iniziata la passerella dei ministri rappresentanti le Parti della Conferenza. Si alterneranno dai loro podi e declameranno tante buone intenzioni: tutti diranno di essere ambiziosi e chiederanno pari ambizione anche agli altri colleghi, ma si tratterà solo di parole, solo parole. I fatti sono altri.

Da oggi le delegazioni tecniche saranno affiancate da quelle politiche e la guida delle trattative sarà affidata a dei ministri: inizia il cosiddetto segmento di alto livello della Conferenza. Si cercherà di confezionare dei documenti che, con una serie di parafrasi e di formule diplomatiche, faranno intendere che sono stati raggiunti tutti gli obiettivi previsti, che nelle prossime riunioni preliminari alla COP 26 si definiranno i dettagli e che il mondo sarà salvato l’anno venturo nelle Lowlands scozzesi. Tutto per nascondere ciò che pochi sembra che sappiano, cioè che del clima non importa niente a nessuno (di quelli che contano) e che tutto il carrozzone diplomatico-mediatico chiamato COP, serve solo a definire un modo per ridistribuire la ricchezza a livello globale. Punto.

Per rendersi conto che non sto scrivendo sciocchezze, andiamo a vedere dove sembra essere naufragata la COP 25. L’ostacolo principale, a mio avviso, deve essere ricercato nella difficoltà di regolamentare il mercato del carbonio previsto dall’art. 6 dell’Accordo di Parigi. L’art. 6 prevede, di fatto, due mercati del carbonio: uno bilaterale e, quindi, gestito dalle Parti e l’altro comunitario gestito dalla Conferenza delle Parti. Il primo è regolato dal paragrafo 2 dell’art. 7 ed il secondo dal paragrafo 4 del medesimo art. 6. Può capitare che i crediti di carbonio vengano contrattati prima sul mercato regolato dal paragrafo 2 e poi su quello regolato dal paragrafo 4, o viceversa, generando il famigerato doppio conteggio che tanto spaventa i funzionari ONU. Le Parti fanno di tutto per rendere fumoso questo punto di discussione, l’ONU cerca di dettagliare in modo il più rigoroso possibile la registrazione delle transazioni e, soprattutto, i meccanismi di controllo per evitare che i crediti ed i debiti di carbonio possano circolare su entrambi i mercati.

Un altro fattore che ha rimesso tutto in discussione, è costituito dalla richiesta di alcune Parti (in primis l’Australia e, successivamente, la Cina ed il Brasile), di poter utilizzare le unità di carbonio definite dal protocollo di Kyoto. Le unità di carbonio da contrattare sul mercato del carbonio, dopo l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, sono diverse da quelle utilizzate dal Protocollo di Kyoto. L’Accordo di Parigi, al fine di aumentare l’ambizione degli obbiettivi, aveva previsto l’abolizione delle unità di carbonio calcolate secondo le modalità del Protocollo di Kyoto, per cui chi ancora era in possesso di crediti o debiti di carbonio, conteggiati con le vecchie unità, non poteva utilizzarli nella contabilità prevista dall’art. 6 dell’Accordo di Parigi. La cosa fa comodo ai Paesi emettitori che vedono sparire i loro debiti, ma non a quelli in via di sviluppo che, per ovvie ragioni, hanno grandi quantità di titoli da commercializzare. L’Australia, ad esempio, difficilmente sarà in grado di rispettare i suoi NDC, ma se potesse inserire nel conto le vecchie unità di carbonio, sarebbe in grado di centrare gli obbiettivi.

Da un punto di vista pratico le maggiori emissioni future, sarebbero compensate dalle mancate emissioni passate. Dal punto di vista contabile funziona tutto perfettamente, ma dal punto di vista della mitigazione climatica non funziona affatto perché si tradurrebbe in un aumento netto delle emissioni. Di qui lo stallo nelle trattative.

Un’altra pietra d’inciampo è costituita dai proventi del mercato del carbonio, da accantonare per interventi di adattamento al cambiamento climatico da realizzare nei Paesi in via di sviluppo. Secondo una linea di pensiero sarebbero quelli del mercato di cui al paragrafo 4 dell’art. 6, secondo altri sarebbero tanto quelli del mercato previsto dal paragrafo 4, tanto quelli del mercato previsto dal paragrafo 2. Non essendoci stata intesa, tutte le possibilità sono restate in campo.

Altro punto che ha suscitato scalpore nell’ambiente, è stata l’assenza di riferimenti ai diritti umani ed alla differenza di genere. Chi ha seguito la COP 24, ricorderà che si parlò molto di differenza di genere, suscitando qualche perplessità: qual è il nesso tra genere e cambiamento climatico? Nessuno, ovviamente, ma il problema sorge allorché si pongono in atto le strategie di mitigazione. Secondo molti attivisti e molti delegati, le tecnologie di mitigazione climatica devono essere implementate nel pieno rispetto dei diritti umani e senza acuire le differenze di genere, anzi devono tendere ad eliminarle. Ciò in quanto la mitigazione deve costituire un momento di cambiamento globale del sistema sociale ed economico: è necessario che l’attuale sistema produttivo sia sostituito da un sistema equo, solidale e sostenibile, in cui tutti quelli che non hanno avuto nulla, abbiano qualcosa in più e chi ha avuto molto, abbia qualcosa in meno. Nelle bozze dei documenti in corso di discussione, ovviamente, tali temi sono stati reintrodotti, pur non essendosi creato il necessario consenso. L’importante è non perderli per strada.

La domanda sorge spontanea: chi li aveva fatti togliere dai documenti? Secondo qualche cattiva lingua si è trattato di uno scambio: qualche Paese ha ceduto su qualche opzione in cambio di una minor attenzione ai diritti umani. Probabilmente è vero, ma reintroducendoli nelle bozze, forse si è acuito il dissenso su altri punti dei documenti.

Ancora vivo il dibattito sulle maggiori ambizioni e, quindi, sulla revisione degli obbiettivi di riduzione delle emissioni volontari dichiarati dalle Parti a Parigi: i famosi NDCs. Essendo ormai acclarato che gli obiettivi della COP di Parigi non sono più raggiungibili, sulla base di quegli NDCs, ogni Parte deve indicare degli NDCs più alti. E qui nasceranno altri problemi.

Non parliamo di quanti problemi ha suscitato e susciterà il meccanismo delle perdite e danni (loss e damage), ovvero dei cento miliardi annui da distribuire ai Paesi in via di sviluppo.

Nella giornata del 10 dicembre, infine, c’è stato un colpo di scena: il Presidente del Senegal ha annunciato, urbi et orbi, che il suo Paese rinuncerà ad una nuova centrale a carbone. Sarà un po’ di folklore, ma ha catturato l’attenzione dei media.

E con questo mi congedo. Sono le 22,00 del 10 dicembre e nessun’altra novità sembra emergere